Spesso si intende la geopolitica come sinonimo di politica estera, nulla di più errato. Nel nostro territorio nazionale la “questione meridionale” è ancora aperta e del resto aleggia anche una “questione centrale”: La questione abruzzese – Teramonews: Il Nord trova nella ‘mitteleuropa’ la via di un’integrazione continentale e il Sud si trova bisognoso di essere obbiettivo di progetti di sviluppo. Tale contrasto tra la parte più ricca e quella più povera d’Europa è anche strategico, e fatalmente esclude dalle dinamiche delle ‘macro-aree’ proprio il Centro, potenziale cerniera tra due italie diverse e risorsa capace di rilanciare l’Italia tutta attraverso una vocazione di recuperata italianità, ma ancora oggi privo di quella capacità interregionale di fare sistema. Roma Capitale nella logica delle reti e dei flussi, non potrà non concepire la sua funzione se non in un’area vasta che va oltre i confini metropolitani.
A differenza di altre nazioni, l’Italia reale è fatta di mille dialetti e campanili (con diecimila campanilismi), di Comuni, di tante antiche capitali, principati, ducati, vescovadi eredi della vocazione universale dell’Impero Romano prima e della Chiesa Cattolica poi. L’Italia è sempre stata divisa tra guelfi e ghibellini, lazzari e giacobini, monarchici e repubblicani, savoiardi e briganti, fascisti e antifascisti, comunisti ed anticomunisti, cattolici e “laici”, “tifosi” di Coppi e Bartali, berlusconiani e antiberlusconiani, salviniani e meloniani contro anti-salviniani ed anti-meloniani. L’unico processo serio di “nazionalizzazione delle masse” lo fece il Fascismo, che col suo crollo travolse pure quel po’ di patriottismo che stava “facendo gli italiani”.
Nel secondo dopoguerra la Patria è stata “patrigna” avendo negato dignità e riconoscimento all’unico genocidio subito dagli italiani, avvenuto in Istria e Dalmazia; la Patria “patrigna” dimenticò di raccontare nelle pubbliche scuole la pulizia etnica che subirono oltre 300.000 italiani al confine orientale. L’Italia abbandonò i suoi figli per non pagare i danni di guerra alla Jugoslavia di Tito ed oggi si tiene i figli dell’Austria, pagandoli profumatamente per farli restare in Italia. Eppure non possiamo nasconderci dietro un dito: in Italia esiste ancora una questione meridionale, che però viene interpretata da quanto di peggio propone il quadro politico-culturale. Il meridionalismo diventa così sciocca utopia antinazionale ed antieuropea. Il problema è molto serio perché se il secessionismo padano sembra essere stato narcotizzato dalla fase “nazionalitaria” di Matteo Salvini, resta comunque il fatto che abbiamo due italie troppo diverse per immaginare che possano coesistere senza che il gap venga almeno contenuto. Il Sud potrebbe diventare hub energetico europeo delle nuove pipe-lines mediterranee ed anche produttore di eccellenza delle energie rinnovabili. Il Sud potrebbe competere con Spagna, Tunisia e Grecia come meta turistica internazionale, ma per tutte queste vocazioni, servono infrastrutture di avanguardia oggi assenti ed un cambio di mentalità.
Essere fieri oggi, come italiani meridionali, di quello che fu il Regno di Napoli è doveroso, ma che cosa significa in concreto, dato che non esiste più? Significa forse auspicare il ritorno al trono di un discendente rampollo restaurando la monarchia? E perché quella borbonica e non quella dei discendenti dei normanni o degli Angiò? Con quale capitale? Melfi, Palermo o Napoli? Oppure significa valorizzare la storia e le potenzialità del Sud? Significa volere la secessione suicida o desiderare lo sviluppo economico imparando dagli errori ed orrori risorgimentali come il campo di concentramento a Fenestrelle o la Legge Pica? Significa idolatrare un passato in modo acritico o magari rimarcare anche le carenze e le debolezze di uno Stato che non ha potuto annoverare neanche una battaglia vinta contro i piemontesi, a differenza dei sudisti americani che lottarono in modo esemplare e degli stessi pontifici che almeno vinsero una volta contro i sabaudi a Mentana? Se il teatro San Carlo fu costruito in soli 270 giorni ed è ancora oggi un capolavoro, magari la lentezza della “Salerno-Reggio Calabria” non attiene a “pigrizie etniche” o a “tare culturali”, ma a qualcosa di diverso, magari ad una acquisita tendenza a “chiagnere e fottere” alla faccia del fu colonizzatore piemontese.
Io sono meridionale, italiano ed europeo perché le identità crescenti non sono in contraddizione tra loro.
Questo è l’orgoglio meridionale: IL PONTE BORBONICO SULLE TREMITI E IL SOGNO DI RICOSTRUIRLO – Alta Terra di Lavoro “il 19 settembre 1844, Ferdinando II di Borbone re del regno delle due Sicilie, era a Tremiti per verificare l’andamento della costruzione del ponte di collegamento fra le due isole maggiori, San Domino e San Nicola, attraverso l’isolotto del Cretaccio. Una visita lampo diremmo oggi, di poco più di tre ore, dalle 4 del pomeriggio: giusto il tempo di una ispezione su San Nicola abitata da circa cinquecento “coloni”, di ascoltare messa nella badia di Santa Maria di Tremiti, di impartire ordini e risalire a bordo del “real legno a vapore Celere”, per far ritorno a Napoli.”
Così esordisce l’ingegnere Manfredoniano Michelangelo De Meo, nel raccontare la sua scoperta, ben suffragata da documenti d’archivio e da immersioni sottomarine fotografiche che documentano il ritrovamento dei pali di fondazione.
“La cronaca dettagliata di tale visita è contenuta nel rapporto inviato dal sottointendente del distretto all’Intendente della Provincia di Capitanata nel quale descrive con accuratezza di particolari, la ricchezza di “commestibili di ogni qualità” ed anche del “superfluo”, di botteghe e di attività artigianali varie operanti sull’isola” – prosegue il suo racconto l’ing. De Meo: “Il grande poi, e magnifico, si è la costruzione di un Ponte di Legno che unisce l’isola del Forte (San Nicola, ndr), con l’isoletta detta Cretazzo per facilitare l’accesso su di esso all’isola Grande Boscosa e coltivabile di Santomino”. Anche qui non mancano i particolari: “il primo braccio da S. Nicola al Cretazzo è completato interamente, è alto dieci palmi dalla cima dell’acqua” profonda “da dici a dodici palmi ed a consimile profondità si conficcano i travi che lo compongono; la sua lunghezza è di passi geometri centoventi e più, è solido tale da potervi farvi transitare pezzi di artiglierie”.
Dagli studi archivistici compiuti da De Meo, l’utilità del ponte era data dalla colonizzazione delle isole da parte di detenuti, che lì avrebbero svolto lavori (pagati) utili al loro reinserimento sociale. La colonia penale, infatti, più che un penitenziario era un illuminato esperimento sociale d’avanguardia, tipico della dinastia Borbone, altro che regno della negazione di Dio come millantavano a Londra e Torino. Il sagace ingegnere ha un sogno, ricostruire quel ponte per valorizzare le isole, e per recuperare la memoria storica e culturale del vecchio ponte. A tale scopo ha predisposto un progetto per eliminare le barriere naturali ed architettoniche e rendere accessibile il territorio attraverso percorsi e strutture idonee per disabili, portatori di handicap ed anziani; per consentire una maggiore fruibilità, abitabilità e aggregazione sociale tra isole e sia fonte di guadagno per il Comune e residenti:
“E’ una costruzione reversibile”- commenta l’ingegnere- “nel senso che se si decidesse di smontarlo si tornerebbe allo stato iniziale senza danni e tracce residue sull’ambiente come è successo in precedenza per il vecchio ponte già realizzato; incrementerebbe il valore scenico e panoramico consentendo una lunga e piacevole passeggiata panoramica tra le isole; creerebbe occupazione ai Tremitesi e destagionalizzerà il turismo, allungando le presenze anche ai mesi primaverili e autunnali; valorizzerebbe l’isola di San Nicola abbandonata a se stessa e in totale degrado; produrrà un introito economico e visibilità al Comune delle Isole Tremiti; ridurrebbe i costi di gestione sulle isole (basta una sola sede Comunale, un solo ospedale, una sola guardia medica, un solo eliporto, ecc…); possibilità di trasporto di merci anche in condizioni avverse del mare; non si impone sul paesaggio perché ecocompatibile e di dimensioni esigue; consentirebbe l’eliminazione dei costi di traghettamento che la Regione Puglia e il Comune delle Tremiti sostengono ogni anno pari a 55.000 euro per collegare le isole tra di loro con un numero di corse limitato“. Cosa significa essere orgogliosi del passato?
Magari significa immaginare che se i Borboni fecero costruire dei ponti che collegavano le isole Tremiti e il primo ponte di ferro d’Italia sul Garigliano, come la prima ferrovia italiana “Napoli-Portici”, forse oggi avrebbero già fatto fare il Ponte sullo Stretto e magari pure le centrali nucleari. Il Ponte sarebbe una delle opere più grandiose della nostra contemporaneità, un vanto architettonico mondiale che resterebbe come simbolo storico di un genius loci di avanguardia, oltre a rappresentare un volano di straordinaria accelerazione infrastrutturale.
Difendere l’assistenzialismo e la decrescita “grillota” (o il furbesco autonomismo, ma coi soldi altrui), significa invece non accettare le sfide globali alle quali è impossibile sottrarsi…e pensare che la prima cattedra di Economìa con Genovesi fu proprio a Napoli. Il Sud da oltre settanta anni ha un gap nei confronti del Nord che è rimasto identico nonostante le politiche assistenzialistiche, o magari proprio a causa di queste: la parte più ricca e quella più povera d’Europa nella stessa nazione. Pertanto non può essere un alibi permanente quello del “massone Garibaldi” e del “Risorgimento antimeridionale” se non ci sarà uno scatto di orgoglio, un cambio di mentalità unito alla visione di una prospettiva che miri a valorizzare le risorse del Mezzogiorno d’Italia. Luca Ricolfi dimostrò anni fa che un federalismo egoistico e radicale lascerebbe oltre 50 miliardi di euro ogni anno al nord: un Nord stellare e un Sud da Terzo Mondo. Nonostante tutto ciò, è fondamentale sapere che la questione meridionale non esisteva 160 anni fa: il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. Siamo tutti italiani, però dobbiamo esserlo in uno Stato capace di includere la pluralità e la contraddizione, la complessità di un percorso storico accidentato e ancora in divenire, con la necessità di riconoscere le piccole patrie che hanno radici antiche che forgiano quelle più grandi: l’Italia e l’Europa.
Pietro Ferrari