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25 Aprile: l’altra storia della guerra civile

A 78 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, secondo un recentissimo sondaggio della Swg di Renato Mannheimer un italiano su quattro non si dichiara antifascista e quasi uno su due ritiene che la sinistra abbia condizionato pesantemente la narrazione storica del Fascismo. Un sondaggio Ipsos del 2021 addirittura registrava tra i giovani italiani un 66% che pur condannando la dittatura trovava cose positive fatte dal regime, un 29% di condanna totale ed un 5% di giudizi positivi: I sondaggi politici di Pagnoncelli: le opinioni dei giovani italiani sul fascismo | Ipsos

A giudicare dai toni istituzionali delle celebrazioni del 25 Aprile, sembra che gli italiani degli Anni Trenta non siano mai stati fascisti anche se questo tentativo di rimozione collettiva cozza sempre con la storia: Adunata del Lavoro a Teramo Giornale Luce B0673 del giorno 08/05/1935 Descrizione sequenze: sfilata dei vari reparti delle milizie fasciste nella città di Teramo ; Rossoni con altre autorità presenti saluta romanamente dal palco e viene applaudito dalla folla; la piazza gremita Adunata per la festa del Lavoro

Gli antifascisti durante il Regime erano “pochi davvero sulle punte delle dita”. Così narrava Mariano Felice Franchi, uno dei capi partigiani nel teramano come riportato dallo studioso Elso Simone Serpentini, docente di storia e filosofìa in pensione, ex rautiano, anima libertaria e nicciana del vecchio MSI ed autore di numerose pubblicazioni TERAMO E IL TERAMANO NEGLI ANNI DELLA GUERRA CIVILE – Artemia Nova Editrice; il professore ha dato alle stampe opere presentate dal medesimo come appartenenti al genere storico ma che non potranno che suggerire alla storiografìa dei nuovi stimoli di completezza e rinnovamento. 

A leggere le celebrazioni della “battaglia campale” (meglio sarebbe dire imboscata) di Bosco Martese del 25 settembre 1943, sembrerebbe quasi che i tedeschi vennero respinti e cacciati via dai partigiani, mentre non vi fu alcun esito di questo genere ma l’esatto contrario: i tedeschi restarono molto tempo ancora e le bande partigiane da allora si dileguarono in piccoli gruppi senza mai più sfidare frontalmente gli occupanti. Una banale scaramuccia senza effetti decisivi, questa la realtà dell’evento dal punto di vista militare ricostruita da Serpentini contro le vulgate autoreferenziali. 

Dipanare con pazienza il groviglio della guerra civile nel teramano dal ’43 al dopoguerra è stato un regalo voluminoso che il professor Serpentini ha voluto fare alla sua provincia. Un regalo che non potrà passare inosservato come se fosse un pacco tra i tanti che affollano gli scaffali. Sono le storie, le mille storie degli anonimi e delle vittime, dei protagonisti e degli antagonisti, dei vigliacchi e degli eroi, degli opportunisti voltagabbana e dei carnefici, dei galantuomini che passano per banditi e dei banditi che passano per galantuomini, sono le storie, le mille storie che fanno la storia. Non solo quelle note e doverosamente celebrate dei martiri antifascisti. 

Anche quelle impunite e soffocate nel tritacarne dell’oblìo: l’assassinio di Luigi Di Marco “condannato” e linciato da un gruppo di donne come presunta spia, quello di Bruno Cellini partigiano ucciso da altri partigiani e le brutali uccisioni antifasciste che colpirono Angelo Marino D’Andrea, Pierino Fieni, Ivo Di Pietro e Guglielmo Martegiani. 

Don Vincenzo D’Ovidio (Roiano di Campli 26.3.1878 – 22.5.1944) e Don Gregorio Ferretti (Montorio al Vomano 20.1.1875 – 24.5.1944), Parroci, entrambi uccisi dal partigiano jugoslavo Mirko Jovanovic hanno avuto quanto meno un tardivo ma doveroso riconoscimento toponomastico a Teramo, anche a seguito dell’attività informativa su Facebook mentre il Comune di Montorio resta ancora silente in proposito ma la lista dei sacerdoti trucidati dai partigiani comunisti in Italia è davvero assai vasta:  Il martirio dei sacerdoti nella guerra civile italiana | www.agerecontra.it

Ma è consentito parlarne? Spesso se ci si permette di sfiorare qualche episodio che lorsignori hanno posto come MITO fondante con quintali di retorica, semplicemente si bestemmia. Il motivo fonda le sue radici nell’utopismo di quei fenomeni che Jean Daujat, Corrado Gnerre ed Eric Voeglin definivano come gnostici, parodìe della religione.

In parole poverissime i figli orfani del marxismo e dell’URSS hanno dovuto ritrovare un ‘centro gravitazionale’ che oggi coincide col politicamente corretto “gay-migranti-bellaciao” (gayfriendly, pro immigrazione, antifascismo in ottantennale assenza di Fascismo, etc.) e soprattutto con lo “storiograficamente corretto” che diventa Lettura Obbligata e dogma operante, consolatorio mantra. Pochi possono decidere cosa sia storia e cosa no, perché occorre trasferire in modo nichilista il trascendente nell’ immanente, Dio nella loro ideologìa, il Vangelo nel capitale di Marx e la Chiesa e la sua autorità nel Partito, l’Inquisizione nei processi sommari. In buona sostanza vi è LA storia che è la Verità raccontata da loro e poi vi sono gli “eretici” che sono quelli che raccontano qualcosa di diverso.

Raccontare davvero una guerra civile è invece una narrazione lacerante di sangue e di onore, di torti e infamie, tradimenti e tragedie familiari, urbane e paesane, una narrazione che talvolta per turpi profitti annulla come insignificanti quelle tante storie che pur l’hanno prodotta, quelle storie che fluiscono come orrida fiumana e come dignitosa tenuta di un ideale e di una resa dei conti in cui svaniscono illusioni e giovinezze, patrie e canti, amicizie e visioni ma dove altre agiografìe già si impongono come paradigmi del futuro. 

Un futuro che non sarebbe più stato libero da quel passato. La storia di Stato che si fa propaganda isterica viene a rimuovere vestigia ed a riscrivere la toponomastica ma nella retorica inevitabile assume, come nemesi beffarda, le vesti dell’altro, perché tutti alla fine furono messi nella condizione di dover dare il meglio o il peggio di se stessi. Quando le fanfare emotive dell’imminenza dopo tanti anni si intorpidiscono non reggendo più la retorica sottostante che le fondava, ecco che riaffiora la necessità della verità, la sete di ascoltarla tutta quanta, quella verità stuprata ed infoibata ma che torna poi in modo delicato e non più come incubo perché non vuole vendetta né chiede prebende, ma solo rispetto. Uno storico questo fa: rende conosciuto in modo dettagliato ciò che è accaduto, dipana gli equivoci o li smaschera, smonta falsi miti lasciando ai lettori non solo necessarie revisioni e riscritture ma essenzialmente una visione completa. 

Il pregio del professor Elso Simone Serpentini consiste nell’essere riuscito, con lucido distacco emotivo che non è però indifferenza, a descriverci nel culmine della sua maturità ed esperienza, il dramma civile di uno scontro esiziale tra un mondo che moriva perché sconfitto con le armi ed un altro che pur disunito avanzava spavaldo, una descrizione sobria e dettagliata che riesce ad unire nella sua penna il ruolo dello storico a quello del cronista giudiziario e del giornalista, per cui le mille storie emancipate dalla mitologìa assumono connotati chiari e sembrano quasi tornare in vita, come novelle che arricchiscono la consapevolezza o come grumi della cattiva coscienza che tornano inattesi. 

Una storia fatta di mille storie diverse ed opposte, mosse da sentimenti e scelte diverse ed opposte anche all’interno degli stessi fronti in lotta, storie che non vanno imposte reciprocamente nella memoria perché ognuno rivendica la sua ‘resistenza’, ma che devono essere invece e quanto meno accettate, rese agibili perché vere, davanti a quella storia che non potrà mai essere del tutto condivisa. 

Perché fu ed è ancora la storia di una guerra civile. Accettare la storia dell’altro senza condividerla è l’ossimoro obbligato, il piccolo dazio da pagare per metabolizzare finalmente il passato e per guardare davvero il futuro senza fantasmi in soffitta, chimere in salotto e scheletri nell’ armadio.

Pietro Ferrari

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